giovedì 29 giugno 2017

Il Primato di san Pietro nell'Enciclica di Leone XIII "Satis cognitum" del 29 giugno 1896



Certamente Cristo è re in eterno e, benché invisibile, tutela e governa perpetuamente dal cielo il suo regno: ma poiché volle che questo fosse visibile, dovette designare chi, dopo la sua ascensione al cielo, facesse le sue veci in terra. “Chiunque affermasse, dice Tommaso, che il solo capo e il solo pastore della Chiesa è Cristo, che è l’unico sposo dell’unica Chiesa, non si esprimerebbe con precisione. Infatti è evidente che è lo stesso Cristo che opera i sacramenti della Chiesa, che battezza, che rimette i peccati, che, vero sacerdote, s’immolò sull’altare della croce, e che per sua virtù ogni giorno si consacra il suo corpo sull’altare; e tuttavia, poiché non sarebbe stato corporalmente e personalmente presente a tutti i fedeli per l’avvenire, elesse dei ministri, per mezzo dei quali potesse dispensare quanto è stato indicato, come già si è detto (cap. 74). Per la stessa ragione, prima di privare la Chiesa della sua corporale presenza, gli fu necessario destinare qualcuno che in suo luogo ne avesse cura. Quindi disse a Pietro prima dell’ascensione: Pasci le mie pecorelle” [33]. Gesù Cristo dunque diede alla Chiesa, per sommo reggitore, Pietro, e nello stesso tempo stabilì che tale potere, istituito in perpetuo per la comune salvezza, si trasmettesse per eredità ai successori, nei quali lo stesso Pietro sopravvive con perenne autorità. Infatti fece quell’insigne promessa a Pietro, e a nessun altro: “Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”(Mt 16,18 ). “A Pietro il Signore ha parlato, a lui solo, perché da uno solo fondasse l’unità” [34]. “Senza aggiungere altre parole... (Gesù) chiama il padre di lui e lui stesso per nome (beato te, Simone, figlio di Jona), ma poi non sopporta che si chiami ancora Simone, già fin d’ora reclamandolo tutto per sé, per i suoi fini, e con significativo paragone volle che si chiamasse Pietro da pietra, perché sopra di lui avrebbe fondato la sua Chiesa” [35]. Dalla citata profezia è evidente che per volere e ordine di Dio la Chiesa si fonda sul beato Pietro, come l’edificio sul suo fondamento. Ora la natura e la forza del fondamento consistono nel far sì che le diverse parti dell’edificio si mantengano collegate insieme, e che all’opera sia necessario quel vincolo di stabilità e fermezza, senza il quale ogni edificio cade in rovina. È dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la Chiesa. Ma chi potrebbe adempiere un compito così grave senza il potere di comandare, proibire e giudicare che veramente e propriamente si chiama giurisdizione? Infatti, solo in virtù di questo potere si reggono le città e gli Stati. Un primato di onore e quella tenue facoltà di consigliare e di ammonire, che si chiama direzione, non possono giovare molto né all’unità né alla fermezza. Il potere, di cui parliamo, ci viene dichiarato e confermato da quelle parole: “E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. “A chi si riferisce - domanda Origene - la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la Chiesa, o alla Chiesa stessa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano quasi una stessa cosa la pietra e la Chiesa? Io credo appunto che questo sia vero; poiché né contro la pietra, su cui Cristo edifica la Chiesa, né contro la Chiesa prevarranno le porte dell’inferno” [36]. La forza perciò di quella divina sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la Chiesa affidata a Pietro soccomba e perisca: “La Chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro qualsiasi uomo che sia fuori della pietra e della Chiesa, ma non contro di essa” [37]. Dunque Dio affidò la sua Chiesa a Pietro, affinché egli, quale invitto tutore, la conservasse perpetuamente incolume. Quindi lo investì del necessario potere, poiché per tutelare qualsiasi società di uomini è indispensabile a chi deve tutelarla il diritto di comandare. Gesù inoltre aggiunse: “E a te io darò le chiavi del regno dei cieli”. Egli continua a parlare della Chiesa, che poc’anzi aveva chiamata sua, e che aveva affermato di voler stabilire su Pietro come sopra il fondamento. La Chiesa è raffigurata non solo come un edificio, ma anche come un regno, e nessuno ignora che le chiavi sono il simbolo del comando; perciò quando Gesù promise a Pietro le “chiavi del regno dei cieli”, gli promise che gli avrebbe dato il potere e il diritto sulla Chiesa: “Il Figlio (del Padre) diede l’incarico (a Pietro) di diffondere per tutto il mondo la conoscenza del Padre e di se stesso, e a un uomo mortale diede ogni potere in cielo, quando gli affidò le chiavi, ed estese la Chiesa per tutto il mondo e la indicò più stabile dei cieli” [38]. Concordano con queste le altre parole di Cristo: “E ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli”. Le parole metaforiche di legare e di sciogliere indicano il diritto di far leggi e insieme il potere di giudicare e di punire. Detto potere si afferma così ampio e di tanta virtù, che qualunque cosa venga da esso decretata verrà da Dio confermata. Pertanto esso è sommo e del tutto libero, come quello che non ha superiore in terra: abbraccia tutta la Chiesa e tutte le cose che ad essa furono affidate. Cristo Signore mantiene poi la sua promessa dopo la sua risurrezione, quando, avendo per ben tre volte domandato a Pietro se lo amasse, gli dice con tono di chi comanda: “Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecorelle”(Gv 21,16-17). Cristo volle così a lui affidate, come a pastore, tutte le pecorelle che sarebbero entrate nel suo ovile. “Il Signore non dubita, dice sant’Ambrogio, perché non interroga per imparare, ma per insegnare, indicandoci colui che egli, prossimo a salire in cielo, ci lasciava per Vicario del suo amore... E poiché egli solo fra tutti professa la sua fede, è a tutti preferito... affinché il perfettissimo governi i più perfetti” [39]. Ufficio e dovere del pastore è quello di guidare il gregge e di procurare il suo benessere con la salubrità dei pascoli, con l’allontanarlo dai pericoli, col preservarlo dalle insidie e col difenderlo dalla violenza: in breve, col reggerlo e governarlo. Essendo dunque Pietro il pastore preposto a tutto il gregge di Cristo, egli ricevette il potere di governare tutti gli uomini, alla cui salute Gesù Cristo aveva provveduto col suo sangue: “Perché, chiede il Crisostomo, sparse egli il suo sangue? Per redimere quelle pecorelle, che affidò a Pietro e ai suoi successori” [40]. E poiché è necessario che tutti i cristiani siano tra loro uniti per la comunione di una fede immutabile, perciò Cristo Signore, con la forza delle sue preghiere, ottenne che Pietro, nell’esercizio del suo potere, non errasse mai nella fede: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede” (Lc 22,32); e gli comandò che nel bisogno comunicasse ai suoi fratelli luce e forza: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). Volle insomma che colui che aveva destinato a fondamento della Chiesa, fosse anche il baluardo della fede. “Non poteva, dice sant’Ambrogio, rafforzare la fede di colui al quale di propria autorità dava il regno, e che additò, chiamandolo pietra, quale fondamento della Chiesa?” [41]. Lo stesso Gesù volle che certi nomi, significanti grandi cose, che “a lui per propria potestà convengono, fossero rivolti anche a Pietro per partecipazione con lui stesso” [42], affinché dalla comunanza dei titoli apparisse anche quella dei poteri. E così colui che è “pietra angolare, su cui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,21), stabilisce Pietro quale pietra fondamentale della Chiesa. “Avendo udito 'sei pietra' è stato encomiato. Benché sia pietra, però, non è pietra come Cristo, ma come Pietro. Cristo infatti è essenzialmente la pietra inconcussa; e Pietro lo è per questa pietra. Infatti Gesù dona le sue cariche onorifiche, ma non si esaurisce... È sacerdote, e fa i sacerdoti... è pietra, e fa la pietra” [43]. Il re stesso della Chiesa, che “tiene la chiave di Davide, e quando apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre” (Ap 3,7), consegnate a Pietro le chiavi, lo dichiara principe della società cristiana. E così pure il sommo pastore, che chiama se stesso “buon pastore”, dà a Pietro il governo dei “suoi agnelli e delle sue pecorelle”: “Pasci gli agnelli, pasci le pecorelle”. Il Crisostomo commenta: “Esimio era Pietro tra gli Apostoli, bocca dei discepoli, capo del loro collegio... E Gesù per mostrargli che conveniva per l’avvenire credere in lui, dimenticata la negazione, affida a lui il governo dei fratelli, dicendo: Se mi ami, presiedi ai fratelli” [44]. Infine colui che ci conferma “in ogni opera e parola di bene” (2Ts 2,16), comandò a Pietro che “confermasse i suoi fratelli”. Giustamente Leone Magno diceva: “In tutto il mondo, il solo Pietro viene eletto per essere preposto e alla chiamata di tutte le genti, e a tutti gli Apostoli e a tutti i Padri della Chiesa: affinché, per quanto siano molti nel popolo di Dio i sacerdoti e molti i pastori, tutti nondimeno siano retti da Pietro, benché Cristo per lui principalmente li governa tutti” [45]. E Gregorio Magno così scriveva all’imperatore Maurizio Augusto: “È evidente a quanti conoscono il Vangelo, che attraverso la parola del Signore è stata affidata la cura di tutta la Chiesa all’Apostolo Pietro, principe di tutti gli Apostoli... Egli ricevette le chiavi del regno dei cieli; a lui è dato il potere di legare e di sciogliere; a lui sono affidati la cura e il principato di tutta la Chiesa” [46]. Ora, essendo questo principato contenuto nella stessa costituzione e nell’ordinamento della Chiesa, come parte principale, o piuttosto come principio di unità e fondamento della sua perpetua esistenza, non poteva perire con Pietro, ma doveva trasmettersi dall’uno all’altro ai suoi successori. Perciò San Leone diceva: “Rimane quindi l’ordinamento della verità, e il beato Pietro, perseverando nella ricevuta forza della pietra, non lascia il comando della Chiesa” [47]. Pertanto, i Pontefici, che succedono a Pietro nell’episcopato romano, ottengono per diritto divino la suprema autorità sulla Chiesa. “Noi definiamo, dicono i Padri del Concilio di Firenze, che la santa Sede Apostolica e il Pontefice Romano hanno il primato su tutto l’orbe, e che lo stesso Pontefice Romano è successore del beato Pietro, principe degli Apostoli, vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; a lui, nella persona del beato Pietro, fu dato da Gesù Cristo, nostro Signore, pieno potere di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, come si afferma anche negli atti dei Concilii ecumenici e nei sacri canoni” [48]. E il Concilio Lateranense IV definisce similmente: “La Chiesa Romana, per disposizione del Signore, primeggia su tutte le altre per l’ordinaria sua potestà, come quella che è madre e maestra di tutti i cristiani”. Questi decreti erano stati preceduti dal consenso di tutta l’antichità, la quale venerò sempre i vescovi romani come legittimi successori del beato Pietro. E chi ignora le tante e così splendide testimonianze dei santi Padri a questo proposito? Luminosa è quella d’Ireneo, il quale parlando della Chiesa Romana, dice: “A questa Chiesa per una più degna supremazia è necessario che concordi ogni Chiesa” [49]. E Cipriano, parlando della medesima Chiesa Romana, la chiama “radice e madre della Chiesa cattolica [50], Cattedra di Pietro e Chiesa principale da cui è sorta l’unità del sacerdozio” [51]. La chiama Cattedra di Pietro, perché vi siede il successore di Pietro; Chiesa principale, per il primato conferito a Pietro e ai suoi legittimi successori; da cui è sorta l’unità, perché la causa efficiente dell’unità nel Cristianesimo è la Chiesa Romana. E così Girolamo si rivolge a Damaso: “Io parlo col Successore del pescatore e discepolo della Croce... Alla tua Beatitudine, cioè alla Cattedra di Pietro, io per la comunione mi associo. So bene che su quella pietra è edificata la Chiesa”. Era suo costume riconoscere un cattolico dalla unione che aveva con la Sede romana di Pietro; e diceva: “Se qualcuno è unito alla Cattedra di Pietro, è dalla mia parte” [52]. Allo stesso modo Agostino attesta apertamente che “nella Chiesa Romana sempre fiorì il principato della Cattedra Apostolica” [53], e nega che sia cattolico chiunque dissenta dalla fede romana: “Non credere di avere la vera fede cattolica, se non insegni la necessità di avere la fede romana”[54]. La stessa cosa afferma Cipriano: avere comunione con Cornelio “è lo stesso che avere comunione con la Chiesa cattolica” [55]. Pure Massimo Abate insegna che è segno caratteristico della vera fede e della vera comunione l’obbedienza al Romano Pontefice: “Perciò se non vuole essere eretico, non ascolti e non accontenti questo o quello... S’affretti ad accontentare la sede romana. Fatto questo, comunemente e ovunque tutti lo riterranno pio e retto. Infatti parla inutilmente e invano chi fa diversamente, e non soddisfa e non implora il beatissimo Papa della santissima Chiesa Romana, cioè la Sede Apostolica”. E ne dà la seguente ragione: “Fra tutte le Chiese sante di Dio che si trovano sulla terra essa ricevette ed ha dallo stesso Verbo di Dio incarnato, ed anche da tutti i santi Concilii, secondo i sacri canoni e precise regole, il comando, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere. Quando lega o scioglie qualcosa, anche in cielo è ratificato dal Verbo, che comanda ai celesti principati” [56]. Quello dunque che già esisteva nella fede cristiana, quello che non un popolo solo o una sola età, ma tutte le età, e l’Oriente insieme e l’Occidente abitualmente riconoscevano e osservavano, venne dal presbitero Filippo, legato del Papa, ricordato al Concilio di Efeso, senza che alcuno sorgesse a contraddirlo: “Nessuno può dubitare, anzi è noto a tutti, da secoli, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette da nostro Signore Gesù Cristo, salvatore e redentore del genere umano, le chiavi del regno, e gli fu dato il potere di sciogliere e di ritenere i peccati: a lui, che finora e per sempre vive ed esercita il potere nei suoi successori” [57]. Allo stesso argomento si riferisce la sentenza del Concilio Calcedonese: “Pietro attraverso Leone... ha parlato” [58]; ad essa a cui fa eco la voce del Concilio Costantinopolitano III: “Il sommo Principe degli Apostoli era d’accordo con noi; avemmo con noi infatti il suo imitatore e successore nella Sede... sembrava carta e inchiostro, e invece Pietro parlava attraverso Agatone” [59]. Nella formula della professione cattolica proposta da Ormisda sul principio del sesto secolo, e sottoscritta dall’Imperatore Giustiniano e dai Patriarchi Epifanio, Giovanni e Menna viene dichiarato con forti parole: “Poiché non si può tralasciare l’affermazione di nostro Signore Gesù Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa,... quanto è stato detto è provato dai fatti, poiché nella Sede Apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia” [60]. Non vogliamo citare più a lungo le singole testimonianze; ma basterà qui ricordare la formula di fede che professò Michele Paleologo nel secondo Concilio di Lione: “La santa Chiesa Romana ha un sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa cattolica, e il Paleologo con tutta verità e umiltà riconosce che essa lo ha ricevuto con piena potestà dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli Apostoli, del quale è successore il Romano Pontefice. E poiché questi sopra tutti è tenuto a difendere la verità della fede, così, se nasceranno questioni intorno alla medesima, egli dovrà con sua sentenza definirle” [61]. Sebbene sia somma e piena la potestà di Pietro, non si creda tuttavia che essa sia la sola. Infatti colui che pose Pietro a fondamento della Chiesa, “scelse anche dodici... ai quali diede il nome di Apostoli” (Lc 6,13). Come è necessario che l’autorità di Pietro si perpetui nel romano Pontefice, così i Vescovi, come successori degli Apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’Ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della Chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici vicari dei romani Pontefici, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli ordinari dei popoli che reggono. Però, siccome il successore di Pietro è uno solo, e i successori degli Apostoli sono molti, è conveniente che si veda quali siano per divina costituzione le relazioni di questi con quello. In primo luogo, è certa ed evidente la necessità dell’unione dei vescovi col successore di Pietro; poiché, sciolto questo vincolo, necessariamente si scioglie e si disperde la stessa moltitudine dei cristiani, così da non poter formare in alcun modo un solo corpo e un solo gregge. “La salute della Chiesa dipende dalla dignità del sommo sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella Chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti” [62]. Pertanto è bene avvertire che niente fu conferito agli Apostoli separatamente da Pietro, ma molte cose a Pietro separatamente dagli Apostoli. Giovanni Crisostomo, nel commentare l’affermazione di Cristo (Giov. 21, 15), si domanda: “Perché Cristo, lasciati gli altri, parla di queste cose solamente a Pietro?”; e risponde: “Perché era il primo fra gli Apostoli, la bocca dei discepoli, il capo del loro collegio” [63]. Egli infatti era il solo designato da Cristo a fondamento della Chiesa; a lui era data la facoltà di legare e di sciogliere; il solo, al quale era dato di pascere. Invece, quanto di autorità e di ministero ricevettero gli Apostoli, lo ricevettero unitamente a Pietro: “Se la concessione divina volle che qualche cosa fosse comune a lui (Pietro) con gli altri principi (Apostoli), non concedette esclusivamente a lui quello che non negò agli altri... Avendo da solo ricevuto molte cose, nulla passò in alcuno senza la sua partecipazione” [64]. Perciò è evidente che i vescovi decadono dal diritto e dalla potestà di governare, quando volutamente si separino da Pietro e dai suoi successori. Infatti, con lo scisma si distaccano dal fondamento su cui deve basarsi tutto l’edificio; sono esclusi quindi dallo stesso edificio, e per la stessa causa separati dall’ovile (la cui guida è il Pastore supremo) e banditi dal regno (le cui chiavi furono date per volere divino al solo Pietro). E in questo Noi riconosciamo ancora il celeste disegno e la mente divina che presiedettero alla costituzione della società cristiana. Cioè, il divino Autore, avendo stabilito nella Chiesa l’unità della fede, del governo e della comunione, elesse Pietro e i suoi successori, perché fossero attuati in essi il principio e il centro dell’unità. Afferma Cipriano: “La dimostrazione è data dal conseguimento di una ovvia verità nel cammino verso la fede. Dice il Signore a Pietro: Io ti dico, che tu sei Pietro... Sopra uno solo edifica la Chiesa. E benché a tutti gli Apostoli, dopo la sua risurrezione, dia uguale potestà, e dica: Come il Padre ha mandato me..., tuttavia per manifestare l’unità, dispose autorevolmente che l’origine della stessa unità cominciasse da uno solo” [65]. E Ottato di Milevi dice: “Non puoi negare di sapere che nella città di Roma a Pietro per primo fu conferita la cattedra episcopale, sulla quale sedette il capo di tutti gli Apostoli, Pietro, (chiamato Cefa, cioè roccia, pietra); affinché in quella sola cattedra, l’unità fosse mantenuta da tutti, e così neppure gli altri Apostoli difendessero le proprie cattedre contro quella, tanto da essere scismatico e in peccato chi ne ponesse un’altra contro l’unica Cattedra” [66]. Perciò Cipriano afferma che sia l’eresia sia lo scisma nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: “Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote di Dio, e non si pensa che nella Chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice vicario di Cristo” [67]. Nessuno dunque che non sia unito a Pietro può partecipare dell’autorità, essendo assurdo pensare che possa comandare nella Chiesa chi è fuori di essa. Perciò Ottato di Milevi rimproverava i Donatisti, dicendo: “Leggiamo che contro le porte (dell’inferno) ricevette le chiavi della salute Pietro, nostro Principe, a cui fu detto da Cristo: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e le porte dell’inferno non le vinceranno. Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro?” [68]. Pertanto si deve credere che l’Ordine episcopale, come Cristo dispose, sia unito a Pietro soltanto se è sottomesso a Pietro e gli obbedisce; altrimenti diventerà necessariamente una moltitudine confusa e disordinata. Per ben conservare l’unità della fede e della comunione non basta un primato di onore, né una sopraintendenza nella Chiesa, ma è assolutamente necessaria una vera e somma autorità, a cui tutta la comunità obbedisca. E a che altro il Figlio di Dio mirò, quando al solo Pietro promise le chiavi del regno dei cieli? L’espressione biblica e il consenso unanime dei Padri non lasciano minimamente dubitare che col nome di chiavi venga in quel luogo significato il supremo potere. Né in altro modo è lecito interpretare quanto viene attribuito separatamente a Pietro, o agli Apostoli uniti a Pietro. Se la facoltà di legare, di sciogliere, di pascere fa sì che ognuno dei Vescovi, successori degli Apostoli, governi con vera potestà il suo popolo, certamente la stessa facoltà deve produrre il medesimo effetto in colui al quale fu assegnato da Dio l’ufficio di pascere “gli agnelli e le pecorelle”. “(Cristo) costituì Pietro non solamente pastore, ma pastore dei pastori; Pietro pasce dunque gli agnelli, e pasce anche le pecorelle; pasce i figli e pasce anche le madri; governa i sudditi e governa anche i prelati, perché oltre gli agnelli e le pecorelle non vi è nulla nella Chiesa” [69]. Si spiegano quindi le espressioni usate dagli antichi riguardo al beato Pietro, e che significano tutte apertamente un sommo grado di dignità e di potere. Egli viene indicato spesso coi titoli di “principe dell’adunanza dei discepoli, principe dei santi Apostoli, corifeo del loro coro, bocca di tutti gli Apostoli, capo di quella famiglia, preposto a tutto il mondo, primo fra gli Apostoli, baluardo della Chiesa”. Sembra che Bernardo voglia racchiudere tutti questi titoli nelle seguenti parole dirette al Papa Eugenio: “Chi sei tu? Il gran sacerdote, il sommo Pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, tu l’erede degli Apostoli... Tu sei colui al quale furono consegnate le chiavi, colui al quale furono affidate le pecorelle. Vi sono pure altri portinai del cielo e pastori dei greggi; ma tu hai ereditato un nome tanto più glorioso quanto, più diversamente da essi, hai ereditato l’uno e l’altro nome. Ogni pastore ha il suo gregge particolare a lui assegnato; a te vennero affidati tutti i greggi, a te solo l’unico, tutto il gregge, non solo delle pecorelle, ma anche dei pastori; tu solo sei il pastore di tutti. Mi domandi in che modo io lo provi? Dalla parola del Signore. Infatti a chi, non dico dei vescovi, ma ancora degli Apostoli, furono in un modo così assoluto e indefinito affidate le pecorelle? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecorelle. Quali? Popoli di questa o di quella città, di questa o di quella regione, o di un certo regno? Le mie pecorelle, disse. A chi non è manifesto non avergli egli assegnate alcune, ma tutte? Nulla si eccettua, ove nulla si distingue” [70]. È cosa contraria alla verità e apertamente ripugna alla costituzione divina dire che i singoli vescovi sono soggetti alla giurisdizione dei romani Pontefici, e non già tutto il corpo episcopale. Infatti, tutta la ragion d’essere del fondamento sta nel dare unità e saldezza a tutto l’edificio, piuttosto che a ciascuna delle sue parti in particolare. Il che nel caso nostro è tanto più vero, in quanto Cristo Signore volle che per la virtù appunto del fondamento le porte dell’inferno non prevalessero contro la Chiesa; e questa promessa divina, com’è a tutti manifesto, si deve intendere di tutta la Chiesa e non delle singole sue parti, le quali possono essere vinte dal furore dell’inferno, e parecchie infatti lo furono. È inoltre necessario che chi è preposto a tutto il gregge non solo abbia il comando sulle singole pecorelle, ma anche su di esse riunite insieme. Forse che l’ovile potrà reggere e guidare il pastore? Forse i successori degli Apostoli, uniti in corpo, saranno il fondamento, su cui il successore di Pietro potrà appoggiarsi per avere fermezza? Chi possiede le chiavi del regno dei cieli non ha soltanto potere e autorità sopra le singole regioni, ma su tutte insieme; e come ciascun vescovo nella sua diocesi presiede con vera potestà non solo ai singoli individui, ma a tutta la comunità, così pure i romani Pontefici, il cui potere abbraccia tutta la cristianità, hanno soggette ed obbedienti alla loro autorità tutte le parti di questa, anche insieme raccolte. Cristo Signore, come già si disse ripetutamente, concedette a Pietro e ai suoi successori che fossero suoi vicari, ed esercitassero perpetuamente nella Chiesa quel potere che egli stesso aveva esercitato nella sua vita mortale. Si potrà forse dire che il Collegio Apostolico sia stato superiore al suo Maestro? La Chiesa non cessò mai in alcun tempo di riconoscere e di attestare questo potere, di cui parliamo, sopra il corpo episcopale, potere così chiaramente indicato dalla sacra Scrittura. Ecco come parlano in proposito i Concilii: “Noi leggiamo che il Romano Pontefice ha giudicato i prelati di tutte le Chiese, ma non leggiamo che qualcuno lo abbia giudicato” [71]. E ne viene data la seguente ragione: “Non esiste un’autorità superiore alla Sede Apostolica” [72]. Gelasio, parlando dei decreti dei Concilii, così scrive: “Come fu nullo tutto ciò che non venne approvato dalla prima Sede, così ciò che essa ha creduto di dover sentenziare fu ammesso da tutta la Chiesa” [73]. Infatti fu sempre privilegio dei Romani Pontefici confermare o invalidare le decisioni e i decreti dei Concilii. Leone Magno annullò gli atti del conciliabolo di Efeso; Damaso rigettò quelli del conciliabolo di Rimini, e Adriano secondo quelli del conciliabolo di Costantinopoli. Il canone XXVIII del Concilio di Calcedonia, perché privo dell’assenso e della volontà della Sede Apostolica, rimase, com’è noto, senz’alcun valore. Con ragione dunque Leone X nel quinto Concilio Lateranense sentenziò: “Solo il Romano Pontefice, temporaneamente in carica, in quanto ha il potere su tutti i Concilii, ha il pieno diritto e l’autorità di indire, trasferire e sciogliere i Concilii; e questo è evidente non solo per testimonianza della sacra Scrittura, delle dichiarazioni dei Padri e degli altri Romani Pontefici e dei decreti dei sacri canoni, ma anche per l’ammissione degli stessi Concilii”. Per la verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli Apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere; ma non si legge in alcun luogo che gli Apostoli ricevessero questo sommo potere “senza Pietro e contro Pietro”. Così davvero non l’hanno ricevuto da Gesù Cristo. Per questo, col decreto del Concilio Vaticano intorno alla forza e alla ragione del primato del Romano Pontefice, non fu introdotto un nuovo dogma, ma asserita l’antica e costante fede di tutti i secoli (del cristianesimo) [74]. Né il sottostare a un doppio potere reca confusione nel governo. Anzitutto la sapienza di Dio, per disposizione della quale questa forma di governo venne stabilita, ce ne vieta anche il semplice sospetto. E poi si deve osservare che l’ordine e le relazioni vengono turbate solamente se nel popolo vi sono due magistrati dello stesso grado, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il potere del Romano Pontefice è supremo, universale e del tutto indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro determinati confini e non è del tutto indipendente. “Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri eguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro, siano costituiti sullo steso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il Papa” [75]. I Romani Pontefici, memori del loro ufficio, vogliono meglio degli altri conservare nella Chiesa tutto ciò che fu divinamente istituito; e quindi come tutelano la propria autorità con quella cura e vigilanza che si conviene, così sempre si preoccuparono e si preoccuperanno perché l’autorità dei Vescovi sia mantenuta. Anzi reputano fatti a se stessi tutto l’onore e l’ossequio che vengono resi ai Vescovi. Per questo san Gregorio Magno diceva: “È mio onore l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando a ognuno di loro non si nega il dovuto onore” [76].



 [33] S. Thomas, Summa contra Gentiles, lib. IV, cap. 76

[34] S. Pacianus, Ad Sempronium, epist. III, n. 11.

[35] S. Cyrillus Alexandrinus, In Evang. Ioan., lib. II, in cap. I, v. 42.

[36] Origenes, Comment. in Matth., tom. XII, n. 11.

[37] Origenes, Comment. in Matth., tom. XII, n. 11.

[38] S. Ioannes Chrysostomus, Hom. LIV In Matth., n. 2.

[39] S. Ambrosius, Exposit. in Evang. secundum Lucam, lib. X, nn. 175-176.

[40] S. Ioannes Chrysostomus, De Sacerdotio, lib. II

[41] S. Ambrosius, De Fide, lib. IV, n. 56.

[42] S. Leo M., Sermo IV, cap. 2.

[43] Hom. De poenitentia, n. 4, in appendice opp. S. Basilii.

[44] S. Ioannes Chrysostomus, Hom. LXXXVIII in Ioan., n. 1.

[45] S. Leo M., Sermo IV, cap. 2.

[46] S. Gregorius M., Epistolarum, lib. V, epist. XX.

[47] S. Leo M., Sermo III, cap. 3.

[48] Concilium Florentinum, Sessio VI, Bulla "Laetentur coeli" unionis Graecorum.

[49] S. Irenaeus, Contra Haereses, lib. III, cap. 3, n. 2.

[50] S. Cyprianus, Epist. XLVIII, Ad Cornelium, n. 3.

[51]  S. Cyprianus, Epist. LIX, Ad eund., n. 14.

[52] S. Cyprianus, Epist. XVI, Ad eund., n. 2.

[53] S. Augustinus, Epist. XLIII, n. 7.

[54] S. Augustinus, Sermo CXX, n. 13.

[55] S. Cyprianus, Epist. LV, n. 1.

[56] S. Maximus Abbas, Defloratio ex Epistola ad Petrum illustrem.

[57] Actio III.

[58] Actio II.

[59] Actio XVIII.

[60] Post Epistolam XXVI, ad omnes Episc. Hispan., n. 4.

[61] Actio IV.

[62] S. Hieronymus, Dialog. contra Luciferianos, n. 9.

[63] Hom. LXXXVIII in Ioan., n. 1.

[64] S. Leo M., Sermo IV, cap. 2.

[65] De unit. Eccl., n. 4.

[66] De Schism. Donat., lib. II.

[67] Epist. XII, Ad Cornelium, n. 5.

[68] Lib. II, nn. 4, 5.

[69] S. Bruno Episcopus Signiensis, Comment. in Ioan., part. III, cap. 21n. 55.

[70] De Consideratione, lib. II, cap. 8.

[71] Hadrianus II, In Allocutione III ad Synodum Romanam an. 869. Cf. Actionem VII Concilii Constantinopolitani IV.

[72] Nicolaus, In epist. LXXXVI, ad Michael. Imperat. — “Patet profecto Sedis Apostolicae, cuius auctoritate maior non est, iudicium a nemine fore retractandum, neque cuiquam de eius liceat iudicare iudicio”.

[73] Epist. XXVI, Ad Episcopos Dardaniae, n. 5.

[74] Sess. IV, cap. 3.

[75] S. Thomas, In IV Sent., dist. XVII, a. 4, ad q. 4, ad 3.

[76] S. Gregorius M., Epistolarum lib. VIII, epist. XXX, ad Eulogium.





martedì 27 giugno 2017

Santi Protomartiri della Santa Chiesa Romana

Il 24 giugno il Martirologio Romano fa l'elogio di  “moltissimi santi Martiri, i quali dall’imperatore Nerone, per allontanare l’odio proveniente dall’aver egli incendiata l’Urbe calunniosamente accusati, furon fatti uccidere crudelissimamente in diverse maniere. Infatti alcuni di essi, coperti con pelli di fiere,furono esposti ad esser dilaniati dai cani; altri furono confitti in croce; ed altri furono bruciati, affinché, quando fosse terminato il giorno, servissero di lume durante la notte. Tutto questi erano discepoli degli Apostoli e primizie dei Martiri, che la Chiesa Romana, fecondo campo di Martiri, mandò al Signore prima della morte degli Apostoli”. Di essi fa menzione anche lo storico pagano Cornelio Tacito (Annales, XV, 44, 2-5). La Chiesa di Roma li commemora il 27 giugno, antivigilia dei santi Pietro e Paolo, Principi degli Apostoli.



PRORIUM MISSAE
Ex Proprio Missarum pro Clero Almae Urbis ejusque Districtus
Duplex II classis

INTROITUS
Rom 8, 36-37.- Propter te, Domine, mortificamur tota die: æstimati sumus sicut oves occisionis: sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos.  ~~  Ps 45,2.- Deus noster refugium et virtus; adiutor in tribulationibus quæ invenerunt nos nimis.  ~~  Glória  ~~  Propter te, Domine, mortificamur tota die: æstimati sumus sicut oves occisionis: sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos.

Rom 8, 36-37.- Per te, o Signore, siamo tratti a morte ogni giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati.  ~~  Ps 45,2.- Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle grandi  angosce che ci hanno investito.  ~~  Gloria ~~  Per te, o Signore, siamo tratti a morte ogni giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati


Gloria


ORATIO
Oremus
Deus, qui Romanæ fidei primordia copioso Martyrum sanguine consescrasti: concede, quæsumus; ut de tanti agone certaminis firma virtute solidemur, et pia victoria gaudeamus. Per Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Preghiamo
O Dio, che hai consacrato i primordi della Fede Romana col sangue d'un immenso stuolo di Martiri: concedici, te ne preghiamo, di rafforzarci nella fortezza da loro dimostrata durante sì fiero combattimento e di godere del loro pio trionfo. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

LECTIO
Lectio Epistolæ beati Pauli Apostoli ad Hebræos
Hebr. 11, 33-39
Fratres: Sancti per fidem vicerunt regna, operati sunt justitiam, adepti sunt repromissiones, obturaverunt ora leonum, extinxerunt impetum ignis, effugerunt aciem gladii, convaluerunt de infirmitate, fortes facti sunt in bello, castra verterunt exterorum: acceperunt mulieres de resurrectione mortuos suos: alii autem distenti sunt non suscipientes redemptionem ut meliorem invenirent resurrectionem. Alii vero ludibria, et verbera experti, insuper et vincula, et carceres: lapidati sunt, secti sunt, tentati sunt, in occisione gladii mortui sunt, circuierunt in melotis, in pellibus caprinis, egentes, angustiati, afflicti: quibus dignus non erat mundus: in solitudinibus errantes, in montibus, in speluncis, et in cavernis terræ. Et hi omnes testimonio fidei probati, non acceperunt repromissionem, Deo pro nobis melius aliquid providente, ut non sine nobis consummarentur.

Fratelli, i Santi mercé la fede conquistarono regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. Alcune donne riacquistarono per risurrezione i loro morti. Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. Altri, infine, subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati - di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra. Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

GRADUALE
Ps 33, 18-19
Clamaverunt iusti, et Dominus exaudivit eos; et ex omnibus tribulationibus eorum liberavit eos.
V. Juxta est Dominus iis qui tribulato sunt corde, et humiles spiritu salvabit.

Gridarono i giusti e il Signore li ha ascoltati, li ha salvati da tutte le loro angosce.
V. Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salverà gli spiriti affranti.

ALLELUIA
Alleluja, alleluja
Te Martyrum candidatus laudat exercitus, Domine. Alleluja.

Alleluia, alleluia
Ti loda, o Signore, il candido esercito dei Martiri. Alleluia.

EVANGELIUM
Sequentia    sancti Evangelii secundum  Matthæum
Matth. 24, 3-13
In illo tempore: Sedente Jesu super montem Oliveti, accesserunt ad eum discipuli secreto, dicentes: Dic nobis, quando hæc erunt? et quod signum adventus tui, et consummationis sæculi? Et respondens Jesus, dixit eis: Videte ne quis vos seducat: multi enim venient in nomine meo, dicentes: Ego sum Christus: et multos seducent. Audituri enim estis prælia, et opiniones præliorum. Videte ne turbemini: oportet enim hæc fieri, sed nondum est finis: consurget enim gens in gentem, et regnum in regnum, et erunt pestilentiæ, et fames, et terræmotus per loca: hæc autem omnia initia sunt dolorum. Tunc tradent vos in tribulationem, et occident vos: et eritis odio omnibus gentibus propter nomen meum. Et tunc scandalizabuntur multi, et invicem tradent, et odio habebunt invicem. Et multi pseudoprophetæ surgent, et seducent multos. Et quoniam abundavit iniquitas, refrigescet caritas multorum: qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit.


In quel tempo, sedutosi Gesù sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo». Gesù rispose: «Guardate che nessuno vi inganni; molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno. Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno pestilenze e carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo è solo l'inizio dei dolori. Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato.


Credo


OFFERTORIUM
Ps 78, 2 et 11
Posuerunt mortalia servorum tuorum escas volatilibus cæli; carnes sanctorum tuorum bestiis terræ. Introëat in conspectu tuo gemitus compeditorum; secundum magnitudinem brachii tui posside filios morte punitorum

Hanno gettato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvaggi. Giunga fino a te il gemito dei prigionieri; con la potenza della tua mano salva i figli dei condannati a morte.

SECRETA
Suscipe, Domine, munera passionibus tuorum dicata Sanctorum: et quæ illis fortitudinem ministrarunt inter persecutionis incendia, nobis præbeant inter adversa constantiam. Per Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Accogli, o Signore, i doni che ti dedichiamo in onore dei patimenti dei tuoi Santi: essi che a quelli diedero fortezza tra i fuochi della persecuzione, diano a noi la costanza nelle avversità. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

COMMUNIO
Matth 24, 9 et 13
Tradent vos in tribulationem, et occident vos, dicit Dominus: et eritis odio omnibus gentibus propter nomen meum: qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit.

Dice il Signore: vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato.

POSTCOMMUNIO
Oremus
Cœlesti pane refectis spiritum nobis, Domine, illius fortitudinis præsta: qua gloriosi Martyres tui, bestiarum dentibus comminuti, in Christo sunt panis mundus inventi. Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Preghiamo
A noi che ci siamo nutriti del celeste Pane concedi, o Signore, quello spirito di intrepida fortezza in grazia del quale i tuoi gloriosi Martiri, maciullati dalle zanne delle belve, divennero pane puro in Cristo. Per il medesimo nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.







sabato 24 giugno 2017

Santa Maria Goretti nelle parole di Pio XII

La dodicenne Maria Goretti, trafitta a morte per la difesa della sua castità, volava al Cielo coronata della duplice corona di vergine e di martire, il 6 luglio 1902. Subito fu fatta oggetto della devozione del popolo cristiano e anche della ammirazione da parte di acattolici (il leader del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti propose Maria Goretti come modello di vita alle giovani comuniste Federazione Giovanile Comunista Italiana). 


Pio XII, che già l’aveva beatificata il 27 aprile 1947, dopo che la Sacra Congregazione dei Riti nel 1949 ebbe riconosciute le due guarigioni miracolose, la elevava agli onori dei Santi il 24 giugno 1950, in una piazza san Pietro gremita di fedeli tra i quali la madre, i fratelli e l'assassino della nuova piccola Santa.  Ai fedeli il Sommo Pontefice rivolgeva il seguente discorso:


Venerabili Fratelli e diletti figli,
Per un amoroso disegno della Provvidenza divina l'esaltazione suprema di una umile figlia del popolo è stata celebrata in questo vespro luminoso con una solennità senza pari e in forma sin qui unica negli annali della Chiesa: nella vastità e nella maestà di questo luogo di mistero, fatto tempio sacro, cui è volta il firmamento che canta le glorie dell'Altissimo; da voi così bramata, prima che da Noi disposta; con un concorso di fedeli numerosissimo, quale non videro mai eguale le altre canonizzazioni; e soprattutto quasi così imposta dall'abbagliante fulgore e dalla inebriante fragranza di questo giglio, ammantato di porpora, che or ora con intimo gaudio abbiamo ascritto all'albo dei Santi : la piccola e dolce Martire della purezza: Maria Goretti. Perché, diletti figli, siete accorsi in così sterminato numero alla sua glorificazione? Perché, ascoltando o leggendo il racconto della sua breve vita, così somigliante a una limpida narrazione evangelica per semplicità di linee, per colore di ambiente, per la stessa fulminea violenza della morte, vi siete inteneriti fino alle lacrime? Perché Maria Goretti ha conquistato così rapidamente i vostri cuori, fino a divenirne la prediletta, la beniamina? Vi è dunque in questo mondo, apparentemente travolto e immerso nell'edonismo, non soltanto una sparuta schiera di eletti assetati di cielo e di aria pura, ma folla, ma immense moltitudini, sulle quali il soprannaturale profumo della purezza cristiana esercita un fascino irresistibile e promettente: promettente e rassicurante. Se è vero che nel martirio di Maria Goretti sfolgorò soprattutto la purezza, in essa e con essa trionfarono anche le altre virtù cristiane. Nella purezza era l'affermazione più elementare e significante del dominio perfetto dell'anima sulla materia; nell'eroismo supremo, che non s'improvvisa, era l'amore tenero e docile, obbediente ed attivo verso i genitori; il sacrificio nel duro lavoro quotidiano; la povertà evangelicamente contenta e sostenuta dalla fiducia nella Provvidenza celeste; la religione tenacemente abbracciata e voluta conoscere ogni dì più, fatta tesoro di vita e alimentata dalla fiamma della preghiera; il desiderio ardente di Gesù Eucaristico, ed infine, corona della carità, l'eroico perdono concesso all'uccisore: rustica ghirlanda, ma così cara a Dio, di fiori campestri, che adornò il bianco velo della sua prima Comunione, e poco dopo il suo martirio. Così questo sacro rito si svolge spontaneamente in un'accolta popolare per la purezza. Se alla luce di ogni martirio fa sempre amaro contrasto la macchia di una iniquità, dietro a quello di Maria Goretti sta uno scandalo, che all'inizio di questo secolo parve inaudito. A distanza di quasi cinquant'anni, tra la spesso insufficiente reazione dei buoni, la congiura del malcostume, valendosi di libri, di illustrazioni, di spettacoli, di audizioni, di mode, di spiagge, di associazioni, tenta di scalzare in seno alla società e alle famiglie, a danno principalmente della fanciullezza anche tenerissima, quelli che erano i presidi naturali della virtù. O giovani, fanciulli e fanciulle dilettissimi, pupille degli occhi di Gesù e dei Nostri, - dite - siete voi ben risoluti a resistere fermamente, con l'aiuto della grazia divina, a qualsiasi attentato che altri ardisse di fare alla vostra purezza? E voi, padri e madri, al cospetto di questa moltitudine, dinanzi alla immagine di questa vergine adolescente, che col suo intemerato candore ha rapito i vostri cuori, alla presenza della madre di lei, che, educatala al martirio, non ne rimpianse la morte, pur vivendo nello strazio, ed ora s'inchina commossa ad invocarla, — dite — siete voi pronti ad assumere il solenne impegno di vigilare, per quanto è da voi, sui vostri figli, sulle vostre figlie, affine di preservarli e difenderli contro tanti pericoli che li circondano, e di tenerli sempre lontani dai luoghi di addestramento alla empietà e alla perversione morale? Ed ora, o voi tutti che Ci ascoltate, in alto i cuori! Sopra le malsane paludi e il fango del mondo si stende un cielo immenso di bellezza. È il cielo che affascinò la piccola Maria; il cielo a cui ella volle ascendere per l'unica via che ad esso conduce: la religione, l'amore di Cristo, la eroica osservanza dei suoi comandamenti. 
Salve, o soave e amabile Santa! Martire sulla terra e angelo in cielo, dalla tua gloria volgi lo sguardo su questo popolo, che ti ama, che ti venera, che ti glorifica, che ti esalta. Sulla tua fronte tu porti chiaro e fulgente il nome vittorioso di Cristo (cfr. Apoc. 3, 12); sul tuo volto virgineo è la forza dell'amore, la costanza della fedeltà allo Sposo divino; tu sei Sposa di sangue, per ritrarre in te l'immagine di Lui. A te, potente presso l'Agnello di Dio, affidiamo questi Nostri figli e figlie qui presenti e quanti altri sono a Noi spiritualmente uniti. Essi ammirano il tuo eroismo, ma anche più vogliono essere tuoi imitatori nel fervore della fede e nella incorruttibile illibatezza dei costumi. A te i padri e le madri ricorrono, affinché tu li assista nella loro missione educativa. In te per le Nostre mani trova rifugio la fanciullezza e la gioventù tutta, affinché sia protetta da ogni contaminazione e possa incedere per il cammino della vita nella serenità e nella letizia dei puri di cuore. Così sia.


FILMATO STORICO DELLA CANONIZZAZIONE

venerdì 23 giugno 2017

Il Sacratissimo Cuore di Gesù

IL SACRO CUORE DI GESÙ
Cor meum ibi cunctis diebus” 
(3Reg IX, 3)



Augurava S. Paolo agli Efesini di conoscere, per la grazia del Padre, da cui ogni dono procede, la scienza sopra eminente della carità di Gesù Cristo verso gli uomini. Nulla poteva loro desiderare di più santo, più dolce, più importante. Conoscere l'amore di Gesù Cristo per noi, della sua pienezza essere ripieni, è il regno di Dio nell'uomo. Ora questo è il frutto della devozione al Cuore di Gesù, che vive e ci ama nel Santissimo Sacramento. Questa devozione è per eccellenza il culto dell'amore: è l'anima e il centro della religione, perché la religione è la legge, la virtù e la perfezione dell'amore, ed il Sacro Cuore ne è la grazia, il modello e la vita. Studiarne quest'amore innanzi al focolare in cui si consuma per noi. La devozione al Sacro Cuore ha un doppio oggetto: si propone prima di onorare, con l'adorazione ed il culto pubblico, il Cuore di carne di Gesù Cristo, e poi l'amore infinito di cui questo Cuore fu acceso per noi dalla sua creazione, e che ancora lo consuma nel Sacramento dei nostri altari.


I. Nobilissimo tra gli organi del corpo umano, il cuore è posto nel suo mezzo, come un re nel centro dei suoi Stati. E' circondato immediatamente dagli organi più importanti, che sono come i suoi ministri ed ufficiali; esso li muove, li fa agire comunicando loro il calore vitale, di cui è il serbatoio. E' la sorgente donde sgorga con impeto il sangue che si diffonde in tutte le parti dell'organismo e le bagna e ristora. Perduto il vigore, il sangue dalle estremità ritorna al cuore, per riaccendervi i suoi fuochi e riprendere nuovi spiriti vitali. Quel che si è detto del cuore umano in generale, è pur vero del Cuore adorabile di Gesù Cristo. E' parte nobilissima del corpo dell'Uomo-Dio, unita ipostaticamente al Verbo, e perciò meritevole del culto supremo di adorazione dovuto a Dio solo. Imperocché nella nostra venerazione non possiamo separare il Cuor di Gesù dalla divinità dell'Uomo-Dio, alla quale è unito da legami indissolubili: il culto che gli rendiamo non si termina in esso, ma va alla Persona adorabile che lo possiede e se l'è unito per sempre. Quindi segue che al divin Cuore possiamo rivolgere le preghiere, gli omaggi, le adorazioni stesse che presentiamo a Dio, e che s'ingannerebbero quelli che, sentendo pronunziare le parole “Il Cuore di Gesù”, non vedessero più in là dell'organo materiale, ritenendo questo Cuore un organo senza vita e senza amore, presso a poco come si farebbe di una sacra reliquia: così sbaglierebbero quelli ancora i quali pensassero che questa devozione divide Gesù Cristo, restringendo al Cuore solo un culto che deve rendersi a tutta la Persona. Questi non riflettono che onorando il Cuore di Gesù non escludiamo il resto dell'Uomo Dio; ma al contrario intendiamo onorare tutte le azioni di Gesù Cristo e tutta la sua vita, che è l'espansione del suo Cuore. Come nel sole si formano e da esso partono i raggi ardenti che fertilizzano la terra e fanno vivere tutto ciò che ha vita, così dal cuore escono le dolci e forti influenze che spandono il calore vitale ed il vigore in tutte le membra. Se il cuore langue, tutto l'uomo s'affievolisce; se soffre, tutte le membra sono sofferenti, le funzioni non si compiono bene e l'organismo si arresta. Fu dunque funzione del Cuore di Gesù vivificare, fortificare, sostenere tutte le sue membra, i suoi organi, i suoi sensi, influendo in essi continuamente: di modo che era esso il principio delle azioni, degli affetti, delle virtù e di tutta la vita del Verbo fatto carne. Essendo il cuore, al dire dei filosofi, il focolare dell'amore, e l'amore essendo stato il movente della vita di Gesù, al suo Cuore dobbiamo attribuire tutti i suoi misteri e tutte le sue virtù. “Come è naturale al fuoco il bruciare, dice San Tommaso, così è naturale al cuore l'amare; e siccome nell'uomo è il primo organo del sentimento, così è conveniente che l'atto comandato dal primo di tutti i precetti sia reso sensibile dal cuore”. Come gli occhi vedono, gli orecchi odono, così il cuore ama: è l'organo dell'anima per produrre gli affetti e l'amore. Nel parlare comune si confondono queste due espressioni e si adopera il cuore per dire l'amore, e reciprocamente. Il Cuore di Gesù fu dunque l'organo del suo amore: cooperò al suo amore, ne fu il principio e la sede; provò tutte le nobili impressioni d'amore che possono commuovere un cuore d'uomo, con la differenza che, amando l'anima di Gesù con un amore incomparabile ed infinito, il suo Cuore è una fornace d'amore verso Dio e verso gli uomini, dalla quale divampano senza posa le fiamme ardentissime e purissime dell'amore divino. Ne fu acceso dal primo istante del suo concepimento fino all'ultimo respiro, e dalla risurrezione non cessò e non cesserà mai di sentirne gli ardori. Il Cuore di Gesù ha prodotto e produce tuttora innumerevoli atti di amore, dei quali uno solo onora più Dio che tutti gli atti di amore degli Angeli e dei Santi uniti insieme mai potranno fare. Di tutte le creature corporee è dunque quella che più contribuisce alla gloria del Creatore, e che merita maggiormente il culto e l'amore degli Angeli e dei Santi. Tutto quello che appartiene alla persona del Figlio di Dio è infinitamente degno di venerazione. La più piccola parte del suo Corpo, una stilla del suo Sangue meritano le adorazioni del Cielo e della terra. Cose vili per se stesse diventano venerabili per il contatto della sua carne, come le spine, la croce, i chiodi, la spugna e la lancia e tutti gli strumenti del suo supplizio. Quanto più dobbiamo venerarne il Cuore, per la nobiltà delle funzioni che esercita, per la perfezione dei sentimenti che produce e delle azioni che ispira? Giacché, se Gesù è nato in una stalla, visse povero a Nazaret, morì per noi sulla Croce, lo dobbiamo al suo Cuore: in quel santuario si formarono tutte le risoluzioni eroiche, i disegni che ne inspirarono la vita. Il suo Cuore deve dunque essere onorato come il presepio, ove l'anima devota vede Gesù venire al mondo povero e abbandonato; come la cattedra donde Gesù le predica il suo: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore; come la croce ove lo vede spirare; come il sepolcro donde lo contempla uscire glorioso ed immortale; e come il Vangelo eterno che le insegna ad imitare tutte le virtù, delle quali è modello perfetto. L'anima devota al Sacro Cuore si applicherà tuttavia specialmente all'esercizio dell'amore divino, di cui questo Cuore è soprattutto sede e simbolo; e poiché il Santissimo Sacramento è il pegno sensibile e permanente dell'amore di Gesù, nell'Eucaristia essa ne cercherà il Cuore, e dal Cuore Eucaristico imparerà ad amare.


II. Gesù Cristo volendo essere sempre amato dall'uomo gli da' incessanti prove del suo amore; e come, per vincere e conquistare il nostro cuore, ha dovuto farsi uomo, sensibile e palpabile, così per assicurare la sua conquista deve continuare a farci sentire un amore alla umana. Perpetua è la legge dell'amore e tale deve esserne pure la grazia; il dolce sole dell'amor di Dio non deve mai tramontare per il nostro cuore, affinché questo non sia invaso dal gelo della morte e dell'oblio. Il cuore umano si da' a quel che è vivo, si unisce all'amore che gli da prove attuali della sua esistenza. Orbene, l'amore che animò la vita mortale del Salvatore, da quello di bambino nella culla a quello di apostolo del Padre durante la predicazione e di vittima sulla croce, tutto si trova riunito e trionfante nel suo Cuore vivente nel SS. Sacramento. Qui dobbiamo cercarlo e nutrircene. Certo il Sacro Cuore è pure in Cielo, ma per gli Angeli ed i Santi già coronati. Nell'Eucaristia è per noi. Dunque la nostra devozione verso il Sacro Cuore dev'essere eucaristica, concentrarsi nella divina Eucaristia, come nel centro personale e vivente dell'amore e delle grazie del Sacro Cuore per noi. Perché separare il Cuore di Gesù dal suo Corpo e dalla sua divinità? E' esso che vivifica e anima il suo Corpo nel Sacramento. Gesù risorto non muore più: perché separarne il Cuore dalla Persona e volerlo, per così dire, far morire nella nostra mente? No, no, il divin Cuore è nell'Eucaristia vivo e palpitante; ora, quella del Salvatore, è una vita, non più passibile e mortale, soggetta a tristezza, agonia e dolore, ma una vita risorta e consumata nella beatitudine. Questa esenzione dal dolore e dalla morte, ben lungi dal diminuire la realtà della vita, la rende più perfetta. Entrò mai la morte in Dio? Egli è tuttavia la sorgente della vita perfetta ed eterna. Il Cuore di Gesù vive dunque nell'Eucaristia perché in essa il suo Corpo è vivo. Non è palpabile né visibile questo Divin Cuore: ma non è così in tutti gli uomini? Onesto principio della vita deve rimanere misterioso e velato; denudarlo sarebbe dargli la morte: l'esistenza del cuore si manifesta dagli effetti che produce. L'uomo non pretende di vedere il cuore dell'amico; gli basta una parola per conoscerne l'amore. Non ci vuol neppure tanto per il Cuore divino di Gesù! Ci viene manifestato dai sentimenti che c'inspira, e questo deve bastarci. D'altra parte, chi potrebbe contemplare la bellezza, la bontà del divin Cuore? Chi sostenere lo splendore di gloria, gli ardori consumanti e divoranti di questo focolare d'amore? Chi oserebbe fissare gli sguardi su quest'arca divina nella quale sta scritto a caratteri di fuoco l'Evangelo della carità, ove tutte le sue virtù sono glorificate, il suo amore ha il trono e la sua bontà tutti i tesori? Chi vorrebbe penetrare nel santuario stesso della Divinità? Il Cuore di Gesù! Esso è il cielo dei cieli abitato da Dio in persona, che vi trova le sue delizie. No, noi non lo vediamo il Cuore eucaristico di Gesù! ma lo possediamo: è nostro! Volete sapere la sua vita? Essa è divisa fra il Padre e noi. Il divin Salvatore ci custodisce; e, mentre chiuso nella debole Ostia sembra dormire il sonno dell'impotenza, il suo Cuore veglia: Ego dormio et cor meum vigilat. Veglia quando pensiamo a lui e quando non vi pensiamo; non ha riposo, manda al suo Padre gridi di perdono in nostro favore. Gesù ci fa scudo del suo Cuore e ci preserva dai colpi della collera divina, provocata dai nostri peccati incessanti; il suo Cuore è là aperto come sulla croce, e fa sgorgare sul nostro capo torrenti di grazia e di amore. E' là, quel Cuore, per difenderci contro i nemici, come la madre che, per salvare il figlio da un pericolo, lo stringe al cuore così che non si può giungere al figlio senza colpire la madre. E quand'anche una madre potesse dimenticare suo figlio, io non vi abbandonerò mai, ci dice Gesù. L'altro sguardo del Cuore di Gesù è per il Padre. L'adora con i suoi ineffabili abbassamenti, nel suo annientamento d'amore; lo loda e ringrazia dei benefici accordati agli uomini suoi fratelli; si offre vittima di espiazione alla sua giustizia; e presenta incessante la sua preghiera per la Chiesa, per i peccatori, per tutte le anime che ha redente. O Padre, mirate con sguardo di compiacenza il Cuore del vostro Figlio Gesù! Vedete il suo amore, ascoltatene i sospiri, e il Cuore Eucaristico di Gesù sia la nostra salvezza!


III. Il modo in cui Gesù ha manifestato il suo Cuore e le ragioni per le quali ne fu istituita la festa, d'accordo c'insegnano che dobbiamo onorare il divin Cuore nell'Eucaristia, ove lo troviamo con tutto il suo amore. Santa Margherita Maria riceve la rivelazione del Sacro Cuore trovandosi innanzi al Santissimo Sacramento esposto: dall'Ostia Gesù si mostra a lei, temendo il suo Cuore tra le mani, e le dice queste parole adorabili che sono il più eloquente discorso sulla sua presenza nel Sacramento: Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini. Nostro Signore, apparendo alla venerabile Madre Metilde, fondatrice di una Congregazione di Adoratrici, le comanda di amare ardentemente e di onorare quanto potrà il suo Sacro Cuore nel Santissimo Sacramento, e glielo da' come pegno del suo amore, perché sia il suo rifugio in vita e suo conforto all'ora della morte. Lo scopo della festa del Sacro Cuore è di onorare con maggior fervore e devozione l'amor di Gesù Cristo nelle sue pene e nella istituzione del Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Per entrar nello spirito della devozione al Cuor di Gesù, dovete dunque onorare i passati patimenti del divin Salvatore e riparare le ingratitudini di cui ogni giorno è fatto segno nell'Eucaristia. Come furono grandi i dolori del Cuore di Gesù! Tutte le prove vennero a pesare sopra esso: fu ricolmo di di disprezzi; saturato di obbrobri; le calunnie più abominevoli lo assalirono e si accanirono nel disonorarlo. Ciò nonostante si è volontariamente offerto, e senza dare un lamento.Il suo amore fu più forte della morte, e i torrenti della tribolazione non poterono estinguerne gli ardori. Ora questi dolori sono finiti; ma noi, per i quali Gesù li ha sofferti, dobbiamo ricambiarli di grato amore e onorarli come se li avessimo presenti. Il Cuore che li ha sofferti con tanto amore è là: non è morto, ma vive e agisce; non è insensibile, ci ama sempre più. Ma ahimè! se Gesù non può più soffrire, gli uomini danno prova verso di lui di una ingratitudine mostruosa! Ed è questo il tormento supremo del Cuore di Gesù nel Santissimo Sacramento! Sì nera ingratitudine verso un Dio che è presente e vive per ottenere il nostro amore! L'uomo è indifferente al dono eccessivo dell'amore di Gesù per lui; non ne fa caso; non vi pensa neppure; o se involontariamente vi pensa, se Gesù cerca di svegliarlo dal suo torpore, ne caccia subito il pensiero importuno. Non vuole l'amore di Gesù Cristo: Anzi l'uomo empio, eccitato dalla fede, dai ricordi della sua educazione cristiana, dal sentimento che la grazia gli mette in fondo al cuore, per spingerlo ad adorare nell'Eucaristia Gesù Cristo come suo Signore, a servirlo di nuovo, si leva contro questo dogma, il più amabile fra tutti, lo nega e giunge sino all'apostasia, piuttosto che adorarlo e sacrificargli un idolo, una passione, e resta così tra le ignominiose sue catene. E va più oltre ancora la sua malizia, sino a rinnovare gli orrori della Passione del divin Redentore. Sì, si vedono cristiani disprezzare Gesù nel Santissimo Sacramento, il Cuore che tanto li ha amati e si consuma d'amore per essi. Profittano, per fargli onta, del velo che lo nasconde! Lo insultano con le esterne irriverenze, i pensieri gli sguardi colpevoli, in sua presenza. Come già i soldati di Caifa, di Erode e di Pilato, abusano, per insultarlo, della sua bontà e pazienza inalterabile che tutto soffre in silenzio! Bestemmiano orrendamente contro il Dio dell'Eucaristia, perché sanno che il suo amore lo fa restare muto. Lo crocifiggono nella loro anima colpevole: lo ricevono, osando gettare quel divin Cuore nel loro putridume e consegnarlo al demonio che li domina. Gesù nella sua Passione non ha sofferto tante umiliazioni quante né subisce nel suo Sacramento. La terra è per Lui un ignominioso Calvario. Ah! nell'agonia cercava un consolatore; sulla croce domandava che si volesse compatire al suo dolore: ora è più che mai necessaria l'ammenda onorevole, la riparazione al Cuore adorabile di Gesù! Circondiamo l'Eucaristia del nostro amore e delle nostre adorazioni. Al Cuore di Gesù vivente nel Santissimo Sacramento onore, lode, adorazione e regno per tutti i secoli dei secoli!


(San Pietro Giuliano Eymard, La Presenza Reale, Cap. XXXIX)



Vigilia della solenne Commemorazione della B.V.M. del Monte Carmelo

  INTROITUS Ger 2, 7.- Induxi vos in terram Carmeli, ut comederitis fructum eius, et optima illius. ~~ Ps  132, 1.- Ecce quam bonum, et iucu...