Il 3 aprile 1969, con la
costituzione apostolica “Missale Romanum” di Paolo VI, veniva promulgato il
Novus Ordo Missae, il nuovo Messale Romano, alla cui composizione collaborarono
più o meno attivamente sei pastori riformati (eretici protestanti).
Immediatamente dopo, un gruppo di dodici teologi cattolici approntò un saggio
critico: il Bref examen critique du Nouvel Ordo Missae, poi tradotto in
italiano dalla scrittrice Cristina Campo. Il testo fu sottoposto al Cardinale
Alfredo Ottaviani, già Segretario del Sant’Offizio, che assieme al Cardinale
Antonio Bacci, illustre latinista, lo presenterà al Papa il 25 settembre 1969.
Il documento, che richiedeva il ritiro del nuovo rito perché discordante coi
decreti dommatici del Concilio Tridentino, fu ahinoi respinto.
Lettera
di presentazione a Paolo VI
Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il
Novus Ordo preparato dagli esperti
del Consilium ad exquendam Constitutionem
de Sacra Liturgia, dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il
dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni
seguenti:
1) Come dimostra
sufficientemente il pur breve esame critico allegato - opera di uno scelto
gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime - il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di
pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia
nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla
teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII
del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del
rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse
l’integrità del magistero.
2) La ragioni pastorali
addotte a sostegno di tale gravissima frattura - anche se di fronte alle
ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere - non appaiono sufficienti.
Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo
Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o
diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio -
già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che verità sempre credute dal
popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito
dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme
hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non
porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di
insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del
Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo
innumerevoli e quotidiane testimonianze.
3) Siamo certi che questa
considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del
gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità,
sempre così profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della
Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si
dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di
chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò
istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere - in un momento di così
dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e
l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre
comune - la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di
quel Missale Romanum di San Pio V
dalla Santità Vostra così altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí
profondamente venerato ed amato.
A. Card. Ottaviani
A. Card. Bacci
Breve esame critico del Novus Ordo Missae
I - Nell'ottobre
del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla
celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de
Sacra Liturgia. Tale messa suscitò
le più gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione
(43 non placet), moltissime e
sostanziali riserve (62 juxta modum)
e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di informazione parlò
di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze
innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione
del loro insegnamento, così sintetizzò il nuovo rito: «[vi] si vuol fare tabula
rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia
protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa». Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla
Costituzione Apostolica Missale romanum,
ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa».
Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state
nel frattempo interpellate al riguardo. Nella Costituzione Apostolica si
afferma che l'antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma
risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità[1]
fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i
sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem,
haustis ex eo... copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che lo pone
definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere
cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il
desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando - soprattutto per merito del
grande S. Pio X - esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della
sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla,
una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia
immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse. Il Messale Romano di San Pio V
era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e
laici. Non si vede in che cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi,
potesse impedire una più piena partecipazione e una maggiore conoscenza della
sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non
lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo
cristiano. Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa
«messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio
collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno
nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a
comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione
immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non
sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa
appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda
accettabile al popolo cattolico. Il Concilio aveva espresso bensì, con il par.
50 della Costituzione Sacrosanctum
Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate,
«ut singularum partium propria ratio
necnon mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l'Ordo testé promulgato risponda a questi
auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo
rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio
dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in
molti punti, i protestanti più modernisti.
II - Cominciamo
dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura
al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei
in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum[2].
Quare de sanctæ Ecclesiæ locali
congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres
congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione
di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente
ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla
assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore,
ricordando quel che Egli fece il Giovedì Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del
Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore
intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza
dell'assemblea[3].
Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa
e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria
equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione[4].
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma - aggravando il già
gravissimo equivoco - che vale «eminenter»
per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum»
(Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del
Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la
maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale
eucaristica.
Segue
immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e
liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa è preparata la mensa
della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»:
assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia,
quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo più
tardi. Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili
relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in
assoluto. Ne citiamo alcune: Actio
Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis
participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia
verbi et liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente sulla cena
e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del
Calvario. Anche la formula «Memoriale
Passionis et Resurrectionis Domini»
è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è
redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente[5].
Vedremo più avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in
generale in tutto il Novus Ordo, tali
equivoci siano rinnovati e ribaditi.
III -
E veniamo alle
finalità della Messa.
1) Finalità
ultima.
È il sacrificio
di lode alla Santissima Trinità, secondo l'esplicita dichiarazione di Cristo
nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et
oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr.
10, 5).
Questa finalità
è scomparsa:
-
dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe,
Sancta Trinitas;
- dalla
conclusione della Messa con il Placeat tibi,
Sancta Trinitas;
- e dal
Prefazio, che nel ciclo domenicale non sarà più quello della Santissima
Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola
volta l'anno.
2) Finalità
ordinaria.
È il Sacrificio
propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla
remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e
santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituì il Sacramento
nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato
vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno
valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il
popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente[6].
3) Finalità
immanente.
Qualunque sia la
natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile
ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe
diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere
accettato è quello di Cristo. Nel Novus
Ordo si snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e
Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»; l'uomo porta il
vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus
panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)»[7].
Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule «panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque cosa.
Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là
il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino
«spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati[8].
Nella
preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la
soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et
mirabilius reformasti», era un richiamo all'antica condizione di innocenza
dell'uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo:
ricapitolazione discreta e rapida di tutta l'economia del Sacrificio, da Adamo
all'attimo presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché
ascendesse «cum odore suavitatis» al
cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva
mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della
prece eucaristica, non vi è più distinzione alcuna tra sacrificio divino e
umano. Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature;
sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i
gesti che dovrebbero sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e
fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo,
delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta dell'Ostia da immolare.
L'unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione
all'immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto
di beneficenza.
IV - Passiamo
all'essenza del Sacrificio.
Il mistero della
Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato,
impercepibile dal popolo[9].
Eccone le ragioni:
1) Il senso dato
nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo
coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54,
fine). Di quale sacrificio si tratta?
Chi è l'offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi. La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis
initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis
et sanctificationis» (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una
sola parola. La menzione esplicita del fine dell'offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il
mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
2) La causa di
questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né più né meno, la soppressione del
ruolo centrale della Presenza Reale, così lampante prima nella liturgia
eucaristica. Ve ne è una sola menzione - unica citazione, in nota, dal Concilio
di Trento - ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento
(n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue,
Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa
parola transustanziazione è totalmente ignorata. La soppressione della invocazione alla terza
Persona della SS.ma Trinità (Veni
sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo
della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in
questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza
Reale.
L'eliminazione
poi:
- delle
genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del
popolo, alla Consacrazione);
- della
purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione
delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
- della
purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul
corporale;
- della palla a
protezione del calice;
- della doratura
interna dei vasi sacri;
- della
consacrazione dell'altare mobile;
- della pietra
sacra e delle reliquie nell'altare mobile e sulla «mensa», quando la
celebrazione non avvenga in luogo sacro
(la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
- delle tre
tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
- del
ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti
e fedeli seduti, in cui la Comunione in
piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le
antiche prescrizioni nel caso di caduta dell'Ostia consacrata, ridotte a un
quasi sarcastico «reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa
che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della fede nel dogma della
Presenza Reale.
3) La funzione
assegnata all'altare (n. 262).
L'altare è quasi
costantemente chiamato mensa[10].
«Altare, seu mensa dominica, quæ centrum
est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che
l'altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e
la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve
essere il centro della congregazione dei fedeli così che l'attenzione si volga
spontaneamente ad esso (ibid.). Ma il
confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento
possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia
irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e
quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un'unica
presenza[11]. Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in
un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi
si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più
il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e
nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza
altare contro altare. Nella
raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate
nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni[12],
così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è
ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la
pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella
Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate[13].
4) Le formule
consacratorie.
L'antica formula
della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa,
indicata soprattutto da tre cose:
a) il testo
della Scrittura, non ripreso alla lettera; l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione
immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo
del suo sacerdozio gerarchico;
b) la
punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo,
che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo,
e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e
spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto
dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
c) l'anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam
facietis», che in greco suona: «eis
ten emou anamnesin» - «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo
operante e non alla semplice memoria di lui o dell'evento: un invito a
ricordare ciò che Egli fece («hæc ... in
mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona
o la cena.
La formula
paolina oggi sostituita all'antica («Hoc
facite in meam commemorationem») - proclamata come sarà quotidianamente
nelle lingue volgari - sposterà irrimediabilmente, nella mente degli
ascoltatori, l'accento sulla memoria del Cristo come termine dell'azione
eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea finale di commemorazione
prenderà ben presto il posto dell'idea di azione sacramentale[14]. Il modo narrativo è ora sottolineato dalla
formula: «narratio institutionis» (n.
55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit»
(n. 55c). In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle
parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di modificare il
modus significandi delle parole della
Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come
costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un
giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli
agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non:
«Hoc est Corpus Christi»)[15].
L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc .…
donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità
sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa
della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui
Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che quella, e non questa,
fosse la vera venuta. Ciò è ancor più accentuato nella formula di acclamazione
facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque
manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine,
donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e
quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo
di ambiguità[16].
V - Veniamo ora
alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro
elementi di esso erano, nell'ordine:
1) il
Cristo.
2) il
sacerdote;
3) la
Chiesa;
4) i fedeli.
1. Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai
fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi
totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi», al saluto del
sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del
Signore (n. 28): «Qua salutatione et
populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium». Dunque vera
presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura
assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque:
- il carattere
comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
- l'inaudita
distinzione tra «Missa cum populo» e
«Missa sine populo» (nn.
203-231);
- la definizione
della «oratio universalis seu fidelium»
(n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l'«ufficio sacerdotale» del popolo
(«populus sui sacerdotii munus exercens»)
presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello
del sacerdote; tanto più che questi si fa interprete, nella sua qualità di
mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è addirittura
detto al Signore: «populum tibi
congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda
offeratur nomini tuo»: ove l'affinché fa pensare che l'elemento
indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché
non è precisato neppure qui chi sia l'offerente[17]
il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi. Di questo
passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi
al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto
sembra già accada, qua e là).
2. La posizione
del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in
funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo più come mero
presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi. Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella definizione
della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla
Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto
collettivo egli non è più giudice, testimone e intercessore presso Dio; è
logico dunque che non gli sia più dato di impartire l'assoluzione, che è stata
infatti soppressa. Egli è «integrato» ai fratres.
Persino il chierichetto lo chiama così nel Confiteor della «Missa sine populo». Già prima di
quest'ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la
Comunione del sacerdote - il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno
Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione
(nella quale era il compimento del Sacrificio) - e quella dei fedeli. Non più una parola ormai sul suo potere di
sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo
della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro
protestante. La sparizione o l'uso
facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano - n. 298)
vanificano ancor più l'originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è più
rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due
segni distinguono appena dalla massa[18]:
(«un po' più uomo degli altri» per citare la formula involontariamente
umoristica di un moderno predicatore[19]). Di nuovo, come nella opposizione degli
altari, si separa ciò che Dio ha unito: l'unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3. Infine la
posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso,
quello della «Missa sine populo» ci
si degna di ammettere che la Messa è «Actio
Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb.
Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa
cum populo» non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e
santificare i presenti. «Presbyter
celebrans ... populum ... sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in
Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che
offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo
Patri».
S'inseriscono in
questo contesto:
- la gravissima
omissione delle clausole «Per Christum
Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi
(Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
- l'ossessivo
«paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri
aspetti altrettanto importanti;
-
l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la
grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo:
popolo in marcia, chiesa peregrinante - non più militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum - verso un futuro
che non è più vincolato all'eterno (quindi anche all'eterno presente) ma a un
vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica
- è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano
«pro omnibus orthodoxis atque catholicæ
et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né più né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero». Così,
nel Memento dei morti, questi non sono più trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad essi
si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e
visibilità, la turba di «omnium
defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti». In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è
il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati,
in nessuna la possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta,
snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio[20].
Omissioni
dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è
misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti
all'anonimato nella seconda parte del Confiteor collettivo: sono scomparsi come
testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima[21].
- Scomparse
anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo
Prefazio della «Prex II».
- Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e
dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i
trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che
divenne, con S. Gregorio, la Messa
romana.
- Soppressa, nel
Libera nos, la menzione della B.
Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è
quindi più chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L'unità della
Chiesa è compromessa fino all'intollerabile omissione, nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei
nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei
nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e
universale.
- Chiaro
attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il
sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes e della benedizione finale; dell'Ite Missa est[22], poi, persino
nella messa celebrata con l'inserviente.
- Il doppio Confiteor
mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda
inclinazione, riconoscendosi indegno
dell'alta missione, del «tremendum
mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell'Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad
intercessione (nell'Oramus te, Domine)
i meriti dei martiri di cui l'altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere
sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate
le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la
celebrazione fuori del sacro nel qual caso l'altare può essere sostituito da
una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale
quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza
Reale.
La
desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità
dell'offerta;
- l'accenno al
pane anziché all'azzimo;
- la facoltà,
data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi
sacri (n. 244d);
- la
inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza
tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote
stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che
sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i
fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto
delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della
«mulier idonea» che, per la prima
volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e
adempiere anche ad altri «ministeria quae
extra presbyterium peraguntur» (n.
70).
- Infine la
mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del
sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e
Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti[23].
VI -
Ci siamo
limitati ad un sommario esame del Novus Ordo,
nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le
osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una
valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente
e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come
nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e
sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo[24]
ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è
potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena
tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla
transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si
presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro
protestante. Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale
pastorale», «testo più pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali
avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del
resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà
responsabile «dell'edizione e della costante revisione dei libri liturgici». Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli
Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria[25]:
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo
stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle Chiese locali; ciò
che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole
contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e
delle sue miriadi di congregazioni».La Costituzione Apostolica stessa dà il
colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa
nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio ...
quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del
latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio
riconobbe «liturgiæ romanæ proprium»
(Sacros. Conc. n. 116), ordinando che
«principem locum obtineat» (ibid.),
ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi
dell'Introito e del Graduale. Il nuovo rito è dato quindi in partenza come
pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo. Spezzata così per sempre l'unità di culto, in
che cosa consisterà ormai quell'unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre
si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni? È evidente che
il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento. A questa
fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla
promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII - La Costituzione accenna
esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il
risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale,
tanto lo spirito ne è, più che remoto, addirittura opposto. A che si riducono queste scelte
ecumeniche?
In sostanza
- alla
molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
- alla presenza
del diacono e alla comunione sub utraque
specie.
Per contro, pare
si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana,
era più prossimo all'orientale[26]
e, rinnegando l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò
che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con
elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli più prossimi
al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre viepiù ne allontaneranno
l'Oriente, come l'hanno già allontanato le ultime riforme. In compenso, esso piacerà sommamente a tutti
quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone
l'organismo, intaccandone l'unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare
in una crisi spirituale senza precedenti.
VIII - S. Pio V
curò l'edizione del Missale romanum
affinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i
cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva
escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora
dalla Riforma protestante. Cosi gravi erano i motivi del Santo Pontefice che
mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula
che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale: «Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti
Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)[27].
Si è avuto l'ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del
Vaticano, che le ragioni del Tridentino non sussistono più. Non solo esse
sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente più
gravi. Proprio facendo fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo
la purezza del deposito ricevuto («depositum
custodi, devitans profanas vocum novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa
dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e
dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel
culto, che divenne il monumento più completo della sua fede. Volere ad ogni costo riportare questo culto
all'antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia
della spontaneità primigenia, secondo quell'«insano archeologismo» cosí
tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII[28],
significa - come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le sue difese
teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli[29],
e proprio in uno dei momenti più critici, forse il più critico che la storia
della Chiesa ricordi. Oggi, non più all'esterno, ma all'interno stesso della
cattolicità l'esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta[30];
l'unità della Chiesa è non più soltanto minacciata ma già tragicamente
compromessa[31]
e gli errori contro la fede s'impongono,
più che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente
riconosciute[32]. L'abbandono di una tradizione liturgica
che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con
un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze
innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di
insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare,
volendo definirlo nel modo più mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini
1969
[1]
«Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) ... La nostra Messa risale,
senza mutamento essenziale, all'epoca in cui si sviluppava per la prima volta
dalla più antica liturgia comune. Essa
serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare
governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in
cui i nostri padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo
come a loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96] … Non vi è, in tutta la cristianità,
rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue). «Il Canone
romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente
come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai
nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli
ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in
qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da
parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la
vera Chiesa Cattolica» (P. Louis
Bouyer).
[2]
In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del Concilio Vaticano
II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale
definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum
Ordinis, n. 5) suona così: «I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il
ministero del vescovo, in modo che ... nelle sacre celebrazioni agiscano come
ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in
favore nostro nella Liturgia ... E soprattutto con la celebrazione della Messa
offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo». Ed ecco l'altro testo cui si
rimanda (Costituzione Sacrosanctum
Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia
ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con
la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede
l'assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo
santo e di tutti gli astanti». Non si spiega come da tali testi si sia potuto
trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa
definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est
ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium...». Fatto
sparire fraudolentemente il centrum,
nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il
posto.
[3]
così il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in
almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum
nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac
substantialiter [can. 1] sub specie illarum
rerum sensibilium contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci
interessa qui direttamente (De
sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a
956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni:
1.
La Messa è vero, visibile sacrificio - non simbolica rappresentazione - «quo cruentum illud semel in cruce peragendum
repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis
quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2.
Gesù Cristo Nostro Signore «sacerdotem
secundum ordinem Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans, corpus et sanguinem
suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum
symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut
sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut
offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite in meam commemorationem” [Lc.
22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper
catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
Il
celebrante, l'offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò consacrato, non
il popolo di Dio, l'assemblea. «Si quis
dixerit, illis verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos
sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et
sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
3.
Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e NON una «nuda
commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum
actiones aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem
propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis, pro
peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri debere, a.s.»
(Can. 3; DB, 950).
Si
ricorda inoltre il can. 6: «Si quis
dixerit Canon Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB,
953) e il canone 8: «Si quis dixerit
Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse,
ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).
[4]
Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito,
crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio
stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o
conciliare che sia.
[5] Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione ove
si volesse riprendere l'Unde et memores,
che d'altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: «tam beatæ Passioni, nec non ab inferis
Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
[6]
Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente
eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione
della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio
era applicato.
[7]
Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI
condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della
«transignificazione» e «transfinalizzazione». «aut ratione signi ... ita instare quasi symbolismus, qui nullo
diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat
rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento ... aut de transubstantiationis
mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius
substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio
fiat, ita ut in sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, ut aiunt,
consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
[8]
L'introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi
dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso
univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una
inscindibile unità (p. es. «spiritualis
alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente
denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che:
«servata Fidei integritate, aptus quoque
modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis
falsæ, quod absit, de Fide altissimarum
rerum suboriantur opiniones»; cita Sant'Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui
fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam
gignant opinionem» (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo
sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum
auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ
facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat ... Eodem
modo ferendus non est quisquis formulis, Concilium Tridentinum Mysterium
Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit» (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
[9]
In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.
[10]
Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub signis
sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per eliminare gli
equivoci dell'altra costante
denominazione.
[11]
«Separare il Tabernacolo dall'altare equivale a separare due cose che in forza
della loro natura debbono restare unite»
(Pio XII, Allocuzione al Congresso
Internazionale di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche
Mediator Dei, I, 5.
[12]
Raramente è usata, nel Novus Ordo, la
parola «hostia», tradizionale nei
libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel
sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena» e di
«cibo».
[13]
Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l'altra,
la Presenza Reale viene equiparata alla
presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt'altra
natura perché non ha realtà che in usu,
mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla
comunicazione che se ne fa nel Sacramento. Tipicamente protestanti le formule:
«Deus populum suum alloquitur ...
Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che,
strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è
mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell'individuo e limitata nel tempo. L'errore non è senza la più tragica
conseguenza: l'affermazione, o l'insinuazione, che la Presenza Reale sia legata
all'usus e finisca insieme con esso.
[14]
L'azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare
Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane
e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione
in essa compiuta del Corpo e del Sangue,
essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II -
«Il Culto Eucaristico» - della Mediator Dei).
[15]
Le parole della Consacrazione, quali
sono inserite nel contesto del Novus Ordo,
possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non
esserlo perché non lo sono più ex vi verborum o piú precisamente in virtù del
modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un
prossimo avvenire, non avranno ricevuto
la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno
validamente? È lecito dubitarne.
[16]
Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste
espressioni appartengono a quello stesso
contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la
giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle
diverse realtà che detti testi esprimono.
[17]
Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano
sacerdoti e perciò offerenti della cena, v. A.
Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii
missæ. Christus est uidem principalis minister. Fideles mediate, non autem sensu stricto, per
sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
[18]
Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il
Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè
di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore.
Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36,
nota 28).
[19]
P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet
[20]
In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus
refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora,
della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
[21]
In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l'omissione, menzionata
nell'accusa dei peccati al Confiteor
[22]
Alla conferenza stampa in cui fu presentato l'Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede
razionalistica, parlò di convertire in «Dominus
tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine populo», «perché non vi sia nulla che non corrisponda a
verità»
[23]
A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che
siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di
comunicarsi di nuovo sub utraque specie
durante questa.
[24]
Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone
serba appena qualche reminiscenza
verbale.
[25]
Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
[26]
Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali,
lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti vestizione del celebrante e del
diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle
offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino
nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell'Entrata col
Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le
quali si identifica il coro nel Cherubicon);
alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo;
alla consacrazione celata, evidente simbolo dell'Inconoscibile a cui l'intera
Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus
ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai
continui e profondi segni di adorazione
di cui sono fatte segno le Specie; all'atteggiamento essenzialmente
contemplativo del popolo. Il fatto che
tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino più di un'ora, e le
costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi,
celesti, vivificanti misteri», ecc.) bastino a dir tutto. Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di
San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di
«cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio,
così come lo era nella Messa romana.
[27]
Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento
manifesta la sua intenzione «ut stirpitus
convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo ...
in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13,
25 ss.) ... quam alioqui Salvator noster
in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua
Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
[28]
«Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque
redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius
studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem
et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam
altius dividentiusque pervestigandam:
non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo
reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam
altari velit mensæ formam restituere;
qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui
divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita
conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus
est, cruciatus... Hæc enim cogitandi
agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum
cupidinem, quam illegitimum excitavit
Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur
conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque
Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei
depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque
reprobavit» (Mediator Dei, I, 5).
[29]
«Non ci illuda il criterio di ridurre l'edificio della Chiesa, diventato largo
e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue
iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le
buone» (Paolo VI, Ecclesiam suam).
[30]
«Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa»
(Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
[31]
«Vi sono anche tra noi quegli «schismata»,
quelle «scissuræ» che la prima
lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura,
dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
[32]
È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da
coloro che si vantarono di esserne i padri;
coloro che - mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver
esso mutato nulla - ne partirono decisi a
«farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la
Santa Sede, con una fretta che ai più parve
inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra
Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti
solo apparentemente formali (latino,
gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali
consacrati dal Novus Ordo. Le
terribili conseguenze, che abbiamo
tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse
ancora più catastrofico, nei campi della
disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con
il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.
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